DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXVI SEMINARIO INTERNAZIONALE
DI STUDI STORICI
Campidoglio, 21-22 aprile 2016
İlber Ortayli
Università
di Galatasaray
Istanbul
ASPETTİ
SOCİO-CULTURALİ E RELİGİOSİ DELLE
MİGRAZİONİ E DİNAMİCHE
DELL’İNSEDİAMENTO DEGLİ İMMİGRATİ E DELLE
COMUNİTÀ NELL’IMPERO OTTOMANO
Il fenomeno
dell’immigrazione nel mondo romano è differente
dall’immigrazione del XVIII secolo e conseguentemente, anche dalla
consueta immigrazione sociale del giorno d’oggi. Per immigrazione oggi si
deve intendere uno spostamento produttivo. Le campagne si spopolano e le
città diventano sempre più grandi.
Migrare nel mondo
dell’Impero romano corrispondeva a un trasferimento degli schiavi, della
forza individuale di operai oppure alla cosiddetta “migrazione dei
popoli”, sorta di movimento di invasione al quale si assiste a partire
dalla caduta dell’Impero romano; o ancora allo spostamento forzato di
gente da una città o regione ad un’altra che costituiva in un
certo senso una vera e propria deportazione. Quest’ultimo fenomeno
avvenne nell’Impero ottomano durante il XV ed il XVII secolo.
La regione che
veniva conquistata solitamente si presentava in pessime condizioni, devastata,
spesso si trattava di una regione agricola produttiva abbandonata a se stessa,
in sfacelo, che era detta “felah-i
vatan” (termine arabo che si usava durante l’Impero ottomano ed
aveva il significato di “regione giuridicamente abbandonata”).
Successivamente essa veniva ripopolata con gente di altre regioni per il
ristabilimento e lo sviluppo dell’area. A tale proposito è
opportuno ricordare la deportazione avvenuta nel XV secolo da Karaman,
provincia situata al centro dell’Asia Minore (Iconia, Galatia, Cappadocia
e Seleucia del periodo dell’Impero romano), nella Tracia dei Balcani e
ancora quelle effettuate in Albania, Macedonia e a Cipro.
Non dobbiamo
dimenticare che la città di Costantinopoli, quando fu conquistata dal
Sultano Mehmed il Conquistatore, era abbastanza spopolata. Di conseguenza la
Seconda Roma si poteva popolare solo con un’inevitabile deportazione di
gente da altre regioni. Quando si parla di gente da deportare non si intendono
solo gli abitanti musulmani dell’Asia Minore, ma anche quelli di fede
cristiana.
Quindi vennero
deportati nella nuova città conquistata, oltre ai Turchi cristiani della
regione dei Tauri (Karamanilis), gli Armeni e i Greci della Bitinia (Bursa,
Yozgat, Trabzon, Hakkari, İçel, Niğde, Ankara), nonché
i cristiani delle isole conquistate Eboa, Lesbo, Thasos, Samotracia, dalla Crimea,
che nel 1463 con un trattato veniva annessa all’Impero, i genovesi, i
Turchi Qipchak, gli ebrei caraiti e infine gente dall’Impero Pontico di
Trebisonda, conquistato in quello stesso anno.
Con la conquista di
Granada, dalla Castiglia della regina Isabella e dall’Andalusia, nell’arco
di 20 anni, arrivarono nella città conquistata dagli ottomani più
di 50 Ebrei “Kahal”.
Bisogna dire comunque che tale spostamento non era stato salutato con lo stesso
calore rivolto all’arrivo in massa dalla Spagna degli altri Ebrei.
Sia i musulmani sia
i cristiani che erano stati deportati dall’Anatolia non erano affatto soddisfatti.
A tale proposito, il Grand Visir di origine ellenica Mahmud Paşa, che si
sforzava di fermare tale deportazione e di diminuire il numero dei migranti,
veniva chiamato dal popolo “Veli”
(“Santo”)[1].
Il sultano Mehmed
II il Conquistatore, che oggi la storiografia generale ha consacrato come il
vero fondatore di Istanbul, a causa di questa deportazione, non era molto amato
dal popolo e neanche dalla classe dei dervisci e degli sceicchi, che avevano
perso i terreni che gli erano stati concessi inizialmente.
La migrazione nel
mondo dell’Impero romano è più che altro un fenomeno creato
da gruppi individuali e dipende dal mercato degli affari. In seguito a queste
migrazioni all’interno delle mura di Istanbul fu creata una zona centrale
musulmana.
Nella periferia
della città, invece, sulle rive del Corno d’Oro, furono insediati
i Greci e gli Ebrei, nei dintorni delle mura di Teodosio e sulle rive del Mar
di Marmara invece trovarono posto Armeni e Greci.
Nella zona di Pera,
dove nel periodo classico risiedevano solo stranieri: veneziani, genovesi
Catalani, si insediarono durante gli anni dell’ultimo Impero romano i
Greci provenienti dalle isole, gli Armeni, dalla Crimea e dalla Spagna, gli
Ebrei, gli Ebrei turchi qaraiti, gli Arabi di Spagna ed anche un piccolo numero
di Turchi provenienti dalla Tracia.
Di tale
sedentarizzazione forzata a Istanbul, avvenuta nel XV secolo, parlano gli
storici turchi: i professori Halil İnalcık, Ekrem Hakkı Ayverdi,
Ömer Lütfi Barkan[2]. Per il periodo più
tardo invece, specialmente quello relativo alla migrazione dalla penisola
italica, bisogna consultare le opere di Geo Pistarino e Tommaso Bertelé.
Nell’ultimo periodo dell’Impero romano si nota chiaramente la
tendenza al modello cosmopolita di Roma e il sultano Mehmed II è il
creatore di questa struttura politica cosmopolita ed imperiale.
I migranti che si
insediano negli imperi classici non sono considerati gli elementi principali
dello Stato e della città a cui appartengono, essi costituiscono
piuttosto la classe plebea, sono migranti.
Ad esempio, se
pensiamo all’Impero ottomano, accanto all’elemento principale
costituito dai musulmani, c’erano i Greci ortodossi (chiamati ortodossi
di Roma), gli Armeni e gli Ebrei, considerati tutti come elementi principali
dell’Impero, mentre invece questo non valeva per i cattolici di Roma, i
cosiddetti latini. Questi ultimi non erano visti come “millet”, ossia il popolo (communitas) dello Stato.
I loro capi religiosi
erano profughi (harbi ossia militari) e pertanto non facevano parte
della classe militare (ottimati) dell’Impero. I capi laici di questa
comunità non venivano denominati logoteti, arconti, amira, come gli
altri capi. Erano rappresentanti (avvocati). Qui non vediamo precisamente le classi
esistenti nell’Impero romano, perché nella Terza Roma le categorie
sociali non sono uguali a quelle degli imperi della classicità.
Se ci ricordiamo lo
stato in cui si trovavano i non cristiani, poco tollerati dai governatori a
partire dal V o anche dal IV secolo, vediamo che si era passati ad un sistema
di società dove accanto al gruppo di musulmani, considerati elemento
principale dell’Impero, c’erano gli altri gruppi, tollerati
parzialmente, su cui comandavano i rappresentanti del gruppo militare
(ottimati) e, sotto di loro, i “reaya”, sudditi non musulmani.
Il mondo monoteista
non possiede l’universalismo della Roma classica, ma si basa su un
sistema più realistico, che può affrontare i vari sviluppi in
maniera più positiva. È naturale che questo lo si veda, come in
tutti gli imperi del Mediterraneo, anche nella Roma musulmana.
Lo status civitatis nell’Impero romano classico non è identico a
quello, per cosi dire, “bizantino” e non somiglia per niente a
quello dell’Impero ottomano. Qui bisogna vedere quanto abbiano inciso le
religioni monoteiste come il cristianesimo e l’islam sul fattore
identitario del popolo.
Nell’antica
Roma, per esempio, la “civitas”
superava lo status delle religioni e
delle etnie. Il rabbino ebreo San Paolo, come cittadino di Roma, era libero.
Ausonius di Bordeaux dice a un governatore: «Diligo Burdigalam, Romam colo. Civis in hac sum, consul in ambabus»
ossia «Amo Bordeaux, venero Roma, sono cittadino in questa, console in
entrambe». Un altro esempio di quanto detto è costituito dal
cittadino Goto, che definiva sua moglie decaduta “civis Alamanna”[3].
Nell’Impero
ottomano i capi dei vari gruppi etnici costituiscono la classe alta dei
cristiani, ebrei e musulmani. Questi vengono chiamati “askeri” (soldati). Coloro che
sono governati da questi capi di ogni gruppo etnico invece, sia provinciali sia
residenti nelle città, fanno parte della classe dei sudditi. Cioé
la classe proletaria. Il contadino non può abbandonare il suo terreno.
Il contadino che abbandona il suo terreno senza chiedere l’autorizzazione
al capo timariota, viene considerato “çiftbozan”
(contadino reietto). Se non torna entro dieci anni dall’abbandono della
sua terra, viene considerato libero.
Coloro che lavorano
nelle fattorie del Sultano sono esentati dalle imposte. Il cittadino (colui che
vive in città) invece, se musulmano, non paga la capitazione (cizye), pertanto le città tendono
ad ampliarsi. Malgrado ciò, per la migrazione dalla campagna in
città sono state prese sempre delle misure.
Solo nel XIX
secolo, quando si passa ad un mondo nuovo, conseguentemente alla disgregazione
dell’Impero, gli abitanti musulmani ed ebrei migrano dalle province nelle
città e cominciano a popolare le grandi città come Istanbul,
Smirne, Adrianopoli.
Nel processo di
insediamento dei migranti nelle diverse zone della città, il fattore
etnico è molto più importante di quello economico, un po’
come nel sistema di insediamento della popolazione nell’Impero romano. I
governanti preferiscono insediare i migranti, anche se di diversa appartenenza
etnica e religiosa, in zone differenti dal ghetto dove vivono i poveri.
Il fattore etnico
era prioritario rispetto a quello economico. Le differenze di status e le esenzioni economiche per i
governatori e i governati provengono da Roma. Queste caratteristiche, anche se
non completamente identiche, si possono rintracciare anche in alcuni imperi
islamici. Infine, ritengo che, oltre a quello che “Bisanzio” ha
insegnato al mondo cristiano, sia opportuno analizzare l’eredità
lasciata dalla Roma classica all’Impero ottomano.
La capitale
dell’Impero romano classico ha combattuto il fenomeno
dell’immigrazione considerandolo un problema. Le persone immigravano da
ogni parte dell’Impero: schiavi, liberi ed anche quelli che godevano
dello status di “cives”. La città di Roma
faceva fatica a nutrire tutti i suoi abitanti e gli immigrati[4].
Lo stesso problema
si riscontrava a Costantinopoli, sia bizantina sia ottomana, dove agivano
meccanismi simili. Tuttavia nel primo secolo dell’Impero ottomano
esistevano la deportazione e la sedentarizzazione. Nel corso del XVIII secolo
invece si è avuto il problema del controllo degli immigrati celibi. Il
fenomeno migratorio non costituiva un problema grave per
l’amministrazione imperiale fino alla dissoluzione dell’Impero
durante l’era nazionalista e sopratutto fino al ritorno dei colonizzatori
musulmani dai paesi balcanici e all’arrivo degli ebrei sefarditi nella
capitale. Fino al XVIII secolo la schiavitù non riguardava il lavoro
industriale e agricolo tradizionalmente diffuso. In effeti la schiavitù
non poteva essere considerata come una problematica della migrazione. Gli
schiavi non potevano abitare tra il popolo, essi soggiornavano presso le
famiglie, in qualità di domestici privati. Vivevano nei porti e nelle
periferie della città, non nel centro urbano. Anche nei secoli XVIIII e
XIX la maggioranza degli immigrati erano celibi. Il migrante non veniva accolto
con favore da parte dell’amministrazione urbana e non poteva abitare dove
vivevano le famiglie; era permanentemente sotto il controllo della polizia. I
migranti vivevano nella periferia della città, in quartieri simili a
lazaretti, in edifici chiamati “han”.
Per loro la vita era difficile, l’igiene era scarsa e in questi quartieri
erano frequenti epidemie che causavano numerosi morti. Quelli che arrivarono a
Costantinopoli dai Balcani e dall’Anatolia venivano controllati nelle
stazioni di sicurezza (Bostancı) situate ai confini della città.
Veniva effettuato il controllo dei passaporti, che contenevano varie
informazioni, come il luogo di provenienza, la causa dell’arrivo,
l’indirizzo di residenza, il permesso delle autorità del luogo di
provenienza. Gli altri invece, una volta arrivati in città con le loro
famiglie, potevano soggiornarvi con la garanzia data da un membro del quartiere
di residenza. Per questo motivo nei quartieri si stabilivano persone
provvenienti da diversi luoghi (mahalle).
Le violazioni dell’ordine pubblico, della sicurezza e del buon costume,
la prostituzione, l’alcolismo non erano tollerati dai membri della communitas, che non esitavano a
reclamare presso il pretore della città ossia il “qadi”, chiedendo
l’espulsione dei colpevoli dal loro quartiere. Lo stesso si può
dire degli stranieri. Edward Barton, ambasciatore della Regina
d’Inghilterra Elisabetta I, venne scacciato dal quartiere con
l’ordine del qadi di Galata in
seguito a un reclamo degli abitanti sia musulmani sia cristiani della commutitas, che lo accusavano di
condurre una vita immorale e di
organizzare persino delle orge nella sua residenza a Pera.
Con la dissoluzione
dell’Impero, alimentata dai movimenti nazionalisti, e con la perdita
delle terre imperiali, Istanbul si è riempita di vecchie famiglie
migranti. Bisogna dire che questo tipo di migrazione ha distrutto tutta la
struttura urbanistica di Istanbul, che seguiva il vecchio modello di Roma. Da
quel momento in poi, la problematica relativa ai rifugiati e ai migranti ha
assunto un carattere diverso.
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione
“Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dal Comitato
promotore del XXXVI Seminario internazionale di studi storici “Da Roma
alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità
di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del CNR e dall’Istituto
di Storia Russa dell’Accademia
delle Scienze di Russia, con la collaborazione della ‘Sapienza’ Università di Roma, sul tema:
MIGRAZIONI, IMPERO E CITTÀ DA ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla
direzione di Diritto @
Storia]
[1] İlber Ortaylı, Osmanlı Toplumunda Yönetici
Sınıf Hakkında Kamuoyunun Oluşumuna Bir Örnek:
Menâkıb-ı Mahmud Paşa-yı Veli, in Tahsin Bekir Balta’ya Armağan,
Ankara 1974, 460 ss.
[2] Ömer Lütfü Barkan, Ekrem Hakkı Ayverdi, İstanbul Vakıfları Tahrir
Defteri, 953 [1546] Tarihli, İstanbul Fetih Cemiyeti İstanbul Enstitüsü
Vol. 61, Istanbul 1970; Ömer
Lütfü Barkan, Osmanlı
İmparatorluğu’nda Bir İskân ve Kolonizasyon Metodu
Olarak Sürgünler, in İstanbul
Üniversitesi İktisat Fakültesi Mecmuası 11, 1949-50,
524 ss; Halil İnalcık, The Appointment Procedure of a Guild Warden
(Kethuda), in Wiener Zeitschrift fur
die Kunde des Morgenlandes 76, 1986:Festschrift
fur Andreas Tietze, 135 ss.
[3]
Si veda, per tutti, Ralph W. Mathisen,
Concepts of citizenship, in The Oxford Handbook of Late Antiquity, a
cura di Scott Fitzgerald Johnson, Oxford, New York 2012, 745 ss.
[4]
Su ciò si veda David Noy, Foreigners at Rome: Citizens and Strangers,
London 2000.